Dolci per chi le mangia, amare per chi le coltiva. Da sempre le banane, tra i frutti più commercializzati e consumati a livello globale per le loro indiscutibili virtù nutrizionali e per la convenienza, rappresentano uno dei settori produttivi a maggior rischio di violazione dei diritti dei lavoratori (salari sotto la sussistenza, lavoro minorile, contatto con sostanze nocive...) e di danni all’ambiente (uso di pesticidi, alterazione del suolo e della biodiversità...). Ma qualcosa finalmente sta cambiando.
Parola di Altroconsumo, che segue questo tema irto di criticità etiche e ambientali fin dal 2004, anno della sua prima inchiesta sulle banane. La seconda, condotta sul campo, risale al 2012, quando ha partecipato in Ecuador ai lavori del World Banana Forum (WBF), la conferenza internazionale organizzata dalla Fao (Food and agriculture organization), che periodicamente riunisce i protagonisti della filiera per concertare le strategie più efficaci in chiave sostenibilità. E a marzo 2024 Altroconsumo era presente alla IV edizione del WBF, quest’anno ospitata proprio dal nostro Paese.
Problemi e progressi al IV World Banana Forum (WBF)
Sul tavolo dell’ultimo WBF di Roma: le vecchie criticità ancora presenti, i chilometri già percorsi sulla strada della sostenibilità e le nuove sfide che il settore si trova ad affrontare, soprattutto a causa del cambiamento climatico e dell’onda lunga del Covid.
Sul fronte ambientale, gli effetti del riscaldamento globale si stanno traducendo in un aumento del numero di siccità, inondazioni e altri disastri naturali che rendono la produzione di banane sempre più incerta e costosa, con il rischio di interrompere le forniture globali e i mezzi di sussistenza dei piccoli proprietari terrieri. Una produzione che, è bene ricordarlo, è ancora pesantemente minacciata in tutto il mondo dal fungo Fusarium Tropical Race 4.
Sul fronte sociale, l’impatto della pandemia sui Paesi produttori - come Colombia, Ecuador e Costa Rica, da cui arriva la maggior parte delle banane commercializzate in Italia - si è spesso tradotto in un peggioramento delle condizioni dei lavoratori, in particolare delle donne. E anche se si sono compiuti grandi progressi per eradicare il lavoro minorile, resta ancora oggi una piaga presente soprattutto nelle piccole realtà produttive, dove la povertà rurale è endemica. I bambini lavoratori rappresentano ancora una fonte di reddito per le famiglie povere e una forza lavoro a basso costo per i piccoli produttori, schiacciati dagli alti costi di produzione.
Sul fronte economico, il WBF ha acceso i riflettori sulla distribuzione del valore lungo tutta la filiera, per garantire salari di sussistenza, ovvero - secondo la definizione della Global Living Wage Coalition - in grado di garantire al lavoratore e alla sua famiglia un livello di vita dignitoso: cibo, acqua, alloggio, istruzione, assistenza sanitaria, trasporti, abbigliamento e altre esigenze essenziali, come poter fare fronte a eventi inattesi. Nella maggior parte dei Paesi del mondo, il salario minimo legale non garantisce ancora un livello di vita dignitoso. Per questo, è nato il movimento del salario di sussistenza, oggi calcolato con un nuovo strumento: la metodologia Anker, oggi ampiamente accettata in tutto il mondo.
Al WBF di Roma sono emerse varie proposte, da un lato per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici, tutelando la biodiversità e la produzione, dall’altro per garantire i diritti dei lavoratori (sicurezza e salute, equità di genere, libertà di associazione, salario dignitoso) ed eliminare definitivamente il lavoro minorile, alleviando la povertà rurale con salari più alti e garantendo prezzi di vendita delle casse di banane sufficienti a coprire i costi di produzione sostenuti dai piccoli produttori.
Ma anche i consumatori, nel loro piccolo, possono fare molto per contribuire a rendere più equa e più giusta la filiera delle banane.
Anche le scelte dei consumatori promuovono il cambiamento
Tutti noi giochiamo un ruolo da protagonisti quando acquistiamo le banane dal fruttivendolo, al mercato, al supermercato oppure online. Se oggi la produzione e il commercio di questi frutti sono un po’ più “etici” e sostenibili è anche merito delle forti pressioni dell’opinione pubblica contro le scandalose condizioni di lavoro nelle piantagioni, ma anche della maggiore sensibilità dei consumatori verso gli aspetti etici di ciò che acquistano. Le nostre scelte hanno il potere di orientare il mercato e di spingere le aziende a modificare la loro condotta anche per tutelare la propria reputazione.
Ben lo dimostra l’ultima indagine di Altroconsumo, che ha analizzato a fondo le politiche per garantire la sostenibilità delle banane di marchi e retailer. Sono sempre più numerosi, infatti, quelli che oggi dichiarano un forte impegno per la sostenibilità delle proprie banane, andando addirittura oltre gli obblighi di legge.
La sostenibilità di marchi e retailer sotto la lente di Altroconsumo
Condotta tra aprile e luglio 2024, l’indagine ha coinvolto 9 marchi tra quelli più rappresentativi del mercato (Altromercato, Bonita, Chiquita, Del Monte, Di Manno, Dole, Lola, Orsero, Spreafico) e di 12 tra aziende e gruppi della grande distribuzione (Aldi Bennet, Carrefour, Conad, Coop, Eurospin, Esselunga, In’s, Lidl, MD, Gruppo Selex con le insegne Famila/Emisfero/Dok, Agorà Network con i punti vendita Iperal/Rossetto) selezionati sulla base delle quote di mercato NielsenIQ 2022 delle aziende/gruppi.
Il loro impegno per garantire la sostenibilità della filiera delle banane è stato analizzato utilizzando la documentazione aziendale pubblicamente disponibile, ma anche fonti esterne. In particolare, Altroconsumo ha messo sotto la lente la condotta di marchi e retailer sulle tre macroaree ESG: ambiente (riduzione dei pesticidi, tutela biodiversità, packaging...), sociale (diritti umani, uso di sostanze pericolose per i lavoratori...) e governance (gestione della filiera e rendicontazione).
Inoltre, l’inchiesta ha puntato i riflettori sui temi più critici emersi dal confronto con i partecipanti al WBF di Roma (grandi assenti le catene italiane: peccato!) - salari dignitosi, lavoro minorile, certificazioni - con il supporto di due organizzazioni partecipanti: Bananalink, la ong inglese impegnata a migliorare la vita di chi lavora nella filiera delle banane e dell’ananas, ed Aebe, l’associazione che rappresenta oltre il 70% delle esportazioni di banane dall’Ecuador promuovendo la sostenibilità.
I marchi più impegnati e le insegne della Gdo più attente alla filiera delle banane
Le scelte d’acquisto dei consumatori hanno un enorme potere: orientare il mercato e stimolare cambiamenti positivi. Nel caso delle banane, in concreto significa dare la preferenza alle insegne e ai marchi più virtuosi, che assicurano già un elevato grado di sostenibilità delle loro banane e che si trovano in cima alla classifica dell’indagine di Altroconsumo.
I brand da mettere nel carrello della spesa per giocare un ruolo attivo nella sfida della sostenibilità? Altromercato, Spreafico e Del Monte, i più impegnati in assoluto. Altromercato e Spreafico ottengono ottime valutazioni sugli aspetti sia sociali che ambientali. Il primo ottiene anche il punteggio massimo nell’area governance. Bene anche Del Monte, anche se la valutazione della politica ambientale risulta la meno brillante nel gruppo dei virtuosi.
Hanno imboccato la strada giusta, ma possono fare di più, Chiquita, Dole e Orsero, marchi cioè con un livello di sostenibilità buono in alcune aree, carente in altre. Orsero e Dole traballano sulle politiche sociali, mentre sono promossi sull’ambiente, soprattutto Dole. Chiquita si impegna in modo omogeneo nelle tre aree, ma può decisamente migliorare.
Bonita, Di Manno e Lola? Non pervenuti. Su questi brand, cioè, non è stato possibile rintracciare informazioni sufficienti, in particolare su Bonita. Non è escluso che abbiano già adottato buone pratiche, ma non avendone trovato traccia, non è stato possibile dare un giudizio che giustifichi una scelta consapevole.
Passando ai retailer, cioè a supermercati e discount, i più impegnati sono Aldi, Lidl e Coop. In queste tre catene le garanzie di rispetto dell’ambiente e dei lavoratori della filiera delle banane sono maggiori e sui loro scaffali sono sempre presenti banane certificate Agricoltura biologica e Fairtrade. Bene soprattutto i due discount tedeschi, in particolare per le iniziative sui salari dignitosi per i coltivatori di banane. Brava Coop, l’unica catena italiana ad aver meritato un giudizio positivo per le sue banane Solidal e per le numerose iniziative intraprese soprattutto in ambito sociale.
Bennet, Carrefour, Conad, Esselunga, Eurospin, MD, Gruppo Selex (insegne Famila/ Emisfero/Dok)fanno parte del nutrito gruppo di mezzo, tra luci e ombre sulla sostenibilità. Carrefour, Esselunga e MD sono tra i più impegnati del gruppo. I primi due supermercati hanno meritato giudizi positivi per le politiche sull’impatto ambientale delle banane, mentre il discount MD è andato meglio sugli aspetti sociali. Conad ed Eurospin, al contrario, inciampano proprio sul fronte sociale, così come le insegne che fanno parte del Gruppo Selex (Famila, Emisfero, Dok).
In’s e Agorà Network (insegne Iperal/Rossetto) non pervenuti. Su queste due catene della grande distribuzione non è stato possibile effettuare una valutazione e dare un giudizio perché le informazioni che è stato possibile raccogliere sui criteri di sostenibilità relativa alla filiera delle banane erano troppo scarse.
Salari da garantire, lavoro minorile da eliminare: brand e insegne sostengono queste due battaglie?
In molti Paesi del mondo il cosiddetto “living wage”, cioè il salario che assicura un livello di vita dignitoso al lavoratore e alla sua famiglia, non è quantificato né garantito. Per promuoverlo sono nate iniziative a livello internazionale alle quali le aziende della filiera delle banane (e non solo) possono aderire, garantendo salari dignitosi ai lavoratori. Tra le organizzazioni che certificano le aziende che pagano un salario dignitoso: Fair Wage Network, SAI - SA8000 e Rainforest Alliance. Purtroppo, tra le aziende e i gruppi dell’inchiesta nessuno offre garanzie su questo fronte per banane commercializzate in Italia, mentre il living wage trova spazio nel codice etico di Coop e Carrefour, ma anche in un documento specifico di Lidl. Il tema dei salari dignitosi è strettamente collegato a quello del prezzo finale delle banane: se è adeguato (leggi non troppo basso), sarà più probabile che i lavoratori ricevano un giusto compenso (vedi il riquadro qui in basso). Teniamone conto quando, al supermercato, troviamo confezioni di banane dal prezzo “imbattibile”.
Ultimo tasto dolente: il lavoro minorile, non ancora eradicato nelle realtà rurali più povere, dove i bambini rappresentano manodopera a basso costo, per esempio in Ecuador. A eccezione di Lola, Bonita e Di Manno, nei codici etici o nei bilanci di sostenibilità degli altri marchi abbiamo trovato dichiarazioni di impegno a contrastare il lavoro minorile, nell’ambito della responsabilità sociale sul rispetto dei diritti umani. Stesso discorso per quasi tutte le catene della grande distribuzione analizzate, che dichiarano di impegnarsi per contrastare lo sfruttamento di lavoro minorile nelle filiere dei prodotti a marchio commerciale. Solo su Iperal non abbiamo trovato informazioni.
Le certificazioni, una garanzia costosa
In un mondo perfetto le certificazioni non esisterebbero perché tutte le produzioni sarebbero rispettose dell’ambiente e dei lavoratori anche senza controlli. Ma nella realtà non è così e multinazionali, importatori e retailer esigono sempre di più che i produttori siano certificati secondo uno o più standard. In altre parole, certificare le banane non è più una scelta volontaria, ma una condizione imposta da importatori e insegne, che ormai acquistano dai produttori solo banane pluricertificate.
I produttori, dunque, sono costretti a investire una quantità significativa di risorse (finanziarie, umane, tecnologiche ecc.) per ottenere e mantenere più certificazioni attraverso onerose verifiche periodiche (audit) in loco. Certo, le banane certificate hanno un prezzo più alto che i consumatori sono ben disposti a pagare a fronte della garanzia del rispetto di determinatati requisiti di produzione. Ma non è detto che il maggiore esborso si traduca in ricavi più alti per i produttori né tantomeno per i lavoratori, l’anello più debole della catena. In altre parole, oggi le certificazioni rappresentano una garanzia e un valore aggiunto per i consumatori, ma un costo spesso eccessivo per i produttori, che rischia di ricadere anche sui salari dei lavoratori. Il sistema delle certificazioni, dunque, va sicuramente reso meno costoso attraverso l’ottimizzazione degli audit, come ha chiesto al WBF il Clúster Bananero dell’Ecuador (l’organizzazione che riunisce i principali sindacati dei produttori ed esportatori di banane del Paese), e più trasparente per evitare conflitti di interesse, visto che il controllato paga il controllore.
Le banane sono state uno dei primi prodotti a essere certificato Fairtrade, ma oggi esistono anche altre certificazioni per questo frutto. L’inchiesta di Altroconsumo si è concentrata sulle cinque certificazioni più rilevanti del settore: Agricoltura biologica, Fairtrade/Commercio equo solidale, Rainforest Alliance, GlobalG.a.p., Smeta. Le prime tre certificazioni prevedono loghi sulle banane e sono facilmente identificabili nonché reperibili nella grande distribuzione. Anche GlobalG.a.p. ha introdotto un logo da apporre sul prodotto nella vendita al dettaglio, ma durante l’indagine non sono state trovate banane con questo logo, anche se numerosi marchi e retailer sono certificati. Pur non avendo un logo, è stato considerato anche il sistema di audit Smeta perché può giocare un ruolo importante nel processo di ottimizzazione degli audit.
E veniamo ai risultati dell’indagine. La certificazione più diffusa nel nostro campione è Agricoltura biologica, presente in 5 marche e ben 11 retailer, anche con linee di prodotto che comprendono anche le banane. GlobalG.a.p. e Fairtrade condividono il secondo posto tra le certificazioni più diffuse, per Fairtrade l’incidenza è maggiore tra i retailer, sette, contro tre marche, per il GlobalG.a.p. il contrario. Segue Rainforest Alliance adottata da quattro brand e tre retailer e chiude Smeta, a cui aderiscono tre brand e due retailer.
Insomma, il modo per fare acquisti più responsabili è a portata di mano, visto che nella maggior parte dei casi una stessa azienda offre banane con più certificazioni: i discount Aldi e Lidl hanno tutte e cinque le certificazioni considerate e, tra i marchi, anche Del Monte, Orsero e Spreafico mostrano grande impegno, con ben quattro certificazioni su cinque.
L’etica ha il suo prezzo (e non è sempre quello “giusto”)
A giugno 2024, Altroconsumo è andata anche a verificare i prezzi al chilo di 103 referenze di banane (senza marca, di marca e della linea del supermercato), nei punti vendita di 15 insegne della grande distribuzione. Prezzi delle banane troppo bassi, infatti, rischiano di non garantire condizioni di produzione sostenibili.
Dai grafici qui in alto emerge che i prezzi più bassi non si trovano nei discount, come ci si sarebbe potuti aspettare, bensì nei supermercati (banane convenzionali), dove però sono stati trovati anche i prezzi più alti (da agricoltura biologica). Nel complesso, le banane certificate costano assai più di quelle convenzionali.
La domanda sorge spontanea: le banane certificate costano troppo o sono quelle convenzionali a costare troppo poco? La risposta giusta è, a sorpresa, la seconda. La concorrenza nella grande distribuzione spinge i prezzi al ribasso ma, a fronte di costi di produzione in costante aumento, il rischio è che i ricavi non li coprano più e che a farne le spese siano alla fine gli anelli più deboli della catena: i lavoratori e l’ambiente. Il tema dei prezzi, in altre parole, è strettamente collegato a quello dei salari dignitosi: se i prezzi pagati ai produttori e/o esportatori di banane è adeguato, sarà anche molto più probabile che i lavoratori ricevano un giusto compenso.
Purtroppo, come per il living wage anche sul tema prezzi Altroconsumo ha trovato pochissime informazioni dai brand coinvolti nell’inchiesta. Solo per Altromercato è stata trovata la seguente dichiarazione esplicita: “Al produttore nelle filiere convenzionali rimane in media il 5% di quanto paga il cliente finale, con la banana Altromercato invece al produttore in media rimane il 20% del prezzo finale.” Lo stesso livello di prezzi dovrebbe essere garantito per tutte le banane certificate Fairtrade. Anche Aldi usa il prezzo Fairtrade come riferimento per i prezzi pagati ai produttori.
La certificazione, d’altra parte, da sola non garantisce il pagamento di maggiori prezzi per tutte le banane dei produttori certificati. È il produttore stesso che deve cercare di vendere i suoi prodotti al prezzo del commercio equo e solidale, trovando gli acquirenti che lo accettino. E non sempre ci riesce…