mercoledì 16 ottobre 2024

Italiani, spreco alimentare e sostenibilità del cibo

Riconoscono il peso dello spreco alimentare e il suo impatto economico, ma sono convinti di essere più virtuosi e meno spreconi degli “altri”. L’indagine svolta da Ipsos per Altroconsumo indaga il livello di maturità raggiunto dagli italiani in tema di sostenibilità alimentare.  

Altromangiare
di Lorenza Resuli
mele di vari colori una con il colore del globo terrestre

Covid, inflazione, aumento della povertà, Agenda 2030 sempre più vicina... niente sembra convincerci a cambiare rotta. Nel 2024 - denuncia l’ultimo rapporto dell’Osservatorio internazionale Waste Watcher - lo spreco alimentare è aumentato. E oltre la metà di questo sperpero, confermano i numeri a livello globale e nazionale, si consuma proprio a livello domestico. Nelle nostre case. Oggi, dicono i dati rilevati la scorsa estate sempre da Waste Watcher, ogni italiano butta circa 36 kg di cibo all’anno. Ne siamo consapevoli? È quanto ha verificato l’indagine “Italiani, spreco alimentare e sostenibilità del cibo” svolta da Ipsos per Altroconsumo, coinvolgendo un campione rappresentativo della popolazione italiana (1.000 cittadini maggiorenni). 

L’inchiesta permette di misurare il livello di consapevolezza e maturità raggiunto dai nostri connazionali su uno dei settori chiave della sostenibilità: quello alimentare. L’ambito, cioè, dove si spreca di più in assoluto. E che chiama in causa varie criticità ambientali ed etiche, disseminate lungo filiere spesso poco trasparenti e non sempre sostenibili. Impegnarsi a ridurre lo spreco alimentare tra le mura domestiche sarebbe già molto. Ma impegnarsi ad acquistare solo cibi davvero “sostenibili”, cioè con una filiera trasparente che garantisca una produzione rispettosa sia dell’ambiente sia dei diritti dei lavoratori, rappresenterebbe la vera svolta. 

Il regno dello spreco è la cucina… degli altri

Non ci facciamo caso, ma lo spreco è quotidiano: di acqua, energia elettrica, carburanti... Ma soprattutto di cibo. Un pezzo di pane secco oggi, un cespo di insalata appassita domani e, quasi senza rendercene conto, ogni anno buttiamo via chili di alimenti e non pochi euro. L’Osservatorio internazionale Waste Watcher calcola che, nel 2024, lo spreco alimentare costi all'Italia circa 13 miliardi di euro, di cui 7 miliardi e 445 milioni attribuibili proprio allo spreco domestico. In media, ogni famiglia italiana spreca circa, quasi 300 euro di cibo all'anno. Ebbene la consapevolezza sul problema c’è: oltre il 70% degli intervistati riconosce che il principale ambito di spreco, a livello sia nazionale sia famigliare, è proprio quello alimentare. Ciò che ancora manca è la conoscenza dell’impatto reale di questo spreco all’interno del proprio nucleo domestico, complessivamente sottostimato. 

Ogni famiglia - ci dice il rapporto Waste Watcher dell’estate scorsa - spreca 683,3 g di cibo alla settimana, mentre oltre la metà degli intervistati ritiene che lo spreco settimanale famigliare sia inferiore ai 500 g e ben il 73% assicura di buttare via meno cibo rispetto alla media italiana, non si sa se per innocente ignoranza o per tacitare i sensi di colpa. Una colpa che, in fatto di spreco alimentare, pochi sono disposti ad accollarsi. Quando  vengono interrogati sulle possibili cause, si chiamano in causa prima di tutto le confezioni eccessivamente voluminose, poi il deperimento accelerato dei cibi freschi acquistati al supermercato, infine il timore di consumare un alimento oltre il termine minimo di conservazione (come sarebbe possibile in molti casi). In pratica, si tende a dare la responsabilità dello spreco casalingo più a fattori “esterni” che ai propri comportamenti superficiali o disattenti. Lo conferma quel 75% di italiani che dichiara “noi non sprechiamo cibo”, in contraddizione con i dati dello spreco reale nel nostro Paese.

 
infografica ipsos

Si guarda più al prezzo dei prodotti che alla loro sostenibilità  

Quanto alla sostenibilità alimentare in senso più ampio, i suoi principi purtroppo occupano un posto ancora secondario (leggi insufficiente) nelle scelte d’acquisto degli italiani. Durante la spesa, il 71% degli italiani guarda prima di tutto il prezzo e le offerte, mentre solo meno della metà controlla se il packaging è riciclabile o sostenibile e una percentuale ancora più bassa verifica la presenza di una certificazione relativa alla sostenibilità, come “biologico” o “fair trade”. 

Piccola consolazione: una percentuale piuttosto alta, il 67%, controlla la data di scadenza per acquistare cibi più longevi. Peccato che, a fronte del 76% degli intervistati che sostiene di conoscere la differenza tra “data di scadenza” e “termine minimo i conservazione”, entrando nel merito si scopre che molti confondono le due definizioni. Ciò significa che, a casa, rischia di finire nel bidone dell’umido cibo non ancora scaduto o che ha superato il termine minimo di conservazione, ma che in realtà sarebbe ancora perfettamente commestibile.  

Lo spreco alimentare si combatte educando e informando 

Tornando a bomba, anche se nel nostro Paese lo spreco alimentare è in crescita – complice anche l’inflazione, che spinge a risparmiare acquistando cibo più economico, scadente e, dunque, deperibile -  gli italiani non ignorano che il problema è reale e che urgono soluzioni. Ce lo chiede anche l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, che tra i suoi obiettivi contempla la lotta a uno dei paradossi più eclatanti del nostro tempo: mentre tonnellate di cibo finiscono in discarica, oltre 700 milioni di persone soffrono la fame. Come ridurre lo sperpero alimentare, dunque? Prima di tutto attraverso l’educazione nelle scuole, sostengono gli italiani. E a ragione. Imparare le buone abitudini fin da piccoli, significa crescere adulti più sensibili e consapevoli. Ma ciò che si semina sui banchi deve essere coltivato in famiglia. Detto altrimenti, è inutile che la maestra predichi bene a scuola se i genitori razzolano male a casa… 

Per oltre la metà degli intervistati, poi, è fondamentale incentivare negozianti e ristoratori a donare il cibo invenduto alle associazioni di volontariato, che provvederanno a redistribuirlo a chi ne ha bisogno. E questo è sicuramente cosa buona e giusta, perché è vero che si spreca tanto in casa, ma è altrettanto vero che anche nei negozi di alimentari, nelle catene della grande distribuzione e nei locali (bar, trattorie ecc.) montagne di cibo sono destinate alla discarica, se non trovano un’altra “collocazione”. Nella virtuosa Europa del Nord sono già nati ristoranti “zero spreco”, dove il cibo avanzato viene riutilizzato in cucina o come compost. Da noi siamo ancora agli albori, ma stanno lentamente prendendo piede app, come Too good To go, che permettono ai consumatori di acquistare da negozi e ristoratori il cibo invenduto, ovviamente a prezzi ultra vantaggiosi.

La lotta allo spreco, infine, si combatte con l’arma dell’informazione. Gli italiani chiedono etichette più dettagliate sul termine minimo di conservazione e sulle modalità di conservazione degli alimenti, informazioni più precise sugli effetti nefasti dello spreco alimentare a livello ambientale ed economico. Vogliono giustamente sapere. Ma sono pronti anche ad agire, scendendo in campo in prima persona per ridurre lo spreco? 

 
infografica ipsos

Buon app… etito, risparmiando

Too Good to Go - il marketplace fondato nel 2015 a Copenaghen, che ha già contribuito a “salvare” oltre 350 milioni di pasti e che oggi conta 100 milioni di utenti in tutto il mondo  - non è l’unica app creata con il preciso obiettivo di evitare che cibo ancora buono venga sprecato. Oggi ci sono piattaforme e applicazioni che consentono di acquistare a prezzi scontati la frutta e la verdura che non viene venduta dai supermercati (come Babaco Market), che permettono lo scambio tra vicini di prodotti in scadenza o cibo non consumato (come MyFood), che suggeriscono decine di ricette sul riutilizzo di scarti e avanzi. 

Gli italiani le conoscono e le utilizzano, prendendo parte attiva a questo movimento nascente verso lo “zero spreco”? Mica tanto. Molti sanno che queste piattaforme esistono, ne hanno almeno sentito parlare, ma pochi le utilizzano già. Solo Too Good to Go ha guadagnato una certa popolarità: il 25% degli intervistati la usa, mentre il 33% sostiene di conoscerla bene anche se non l’ha mai utilizzata. Ma le altre piattaforme sono meno note e ancor meno utilizzate. 

 
infografica ipsos

Ma quando un cibo può veramente definirsi “sostenibile”?

Un cibo “sostenibile” è stato prodotto risparmiando le risorse naturali; ha una filiera corta, trasparente e tracciabile dall’inizio alla fine; garantisce il benessere degli animali, ma anche condizioni di lavoro dignitose (in termini di salute, diritti e retribuzione) per chi lo ha coltivato e prodotto. In pratica è un cibo prodotto nel pieno rispetto dell’ambiente e dei lavoratori. Vuoi la minaccia del cambiamento climatico, vuoi le campagne di sensibilizzazione, gli italiani hanno indubbiamente acquisito una maggiore sensibilità verso la questione ambientale. Per il 78% degli intervistati, infatti, un cibo può definirsi “sostenibile” se è stato prodotto risparmiando preziose risorse naturali. Un percentuale elevata associa la sostenibilità a una filiera corta, trasparente e tracciabile, ma anche al rispetto degli animali. Tutto giusto, se non fosse che solo il 65% dà il giusto peso anche all’aspetto etico-sociale, cioè le garanzie per chi quel cibo lo ha coltivato e prodotto. 

infografica ipsos

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