Accettano la responsabilità di dover cambiare il proprio stile di vita per scongiurare un disastro ambientale, ma scaricano sulle aziende l’onere di incentivare la moda green. Sono disposti a spendere di più per un vestito davvero “eco”, ma ignorano gran parte di ciò che ruota intorno all’economia circolare, compreso l’impatto altamente inquinante del settore tessile. Mettono sotto la lente il comportamento etico di aziende e brand, ma non credono alla sincerità del loro impegno “civico”, che spesso giudicano solo un modo per “lavarsi la coscienza”. E quando stanno per acquistare un vestito vanno alla ricerca di informazioni sulla sua sostenibilità e/o su quella del marchio che lo ha prodotto, ma spesso restano delusi e chiedono a gran voce più chiarezza e trasparenza.
Sono questi i tratti salienti emersi dall’indagine “Gli italiani e la moda sostenibile” realizzata da Ipsos per Altroconsumo, coinvolgendo un campione rappresentativo della popolazione italiana, cioè 1.000 cittadini dai 18 anni in su. L’inchiesta permette di misurare il livello di consapevolezza e conoscenza conquistato dai nostri connazionali sulla sostenibilità in generale e su quella in particolare di uno dei settori più inquinanti del Pianeta: quello tessile. Le sorprese (e le contraddizioni) non mancano.
La sostenibilità va “sostenuta”… dalle aziende
Che il famigerato cambiamento climatico sia “tutta colpa nostra” è ormai arcinoto all’82% degli italiani, ma non solo: la stragrande maggioranza è anche ben consapevole che per evitare il peggio è giunta l’ora di mettersi in gioco in prima persona, modificando i propri comportamenti e lo stile di vita. Oltre la metà, anzi, è già passata all’azione iniziando ad acquistare solo i prodotti di marche “impegnate”, mentre cresce la percentuale di chi presta sempre più attenzione ai comportamenti sociali delle aziende.
Ma quando si entra nel merito delle “responsabilità”, i consumatori alzano le mani. A chi spetta, dunque, l’onere di questo impegnativo cambiamento di rotta? Alle aziende, risponde addirittura il 73% del campione. Sono loro a dover investire impegno e risorse sul fronte sociale e ambientale senza chiedere aiuto alla collettività, né tantomeno presentarle il conto. Ma anche quando l’impegno di brand e aziende c’è, non sempre viene considerato come onesto e genuino. Vuoi la scarsa chiarezza, vuoi la mancanza di trasparenza, fatto sta che per circa la metà di chi ha partecipato all’inchiesta l’impegno civico delle aziende o è fasullo (il profitto viene prima di tutto) o è un mezzo per lavarsi la coscienza.
Moda sostenibile, ancora poco conosciuta
Il 60% degli italiani ritiene che un’azienda poco attiva sul fronte sociale e ambientale non abbia futuro. Uno scenario realistico e anche auspicabile per un settore altamente inquinante come quello della moda, responsabile del 10% delle emissioni totali di anidride carbonica a livello globale. Ma questo impatto negativo è poco noto. Stilando la classifica delle attività produttive oggi più sostenibili a livello ambientale, sociale ed economico, i partecipanti all’indagine collocano il settore tessile tra i più virtuosi, quando invece meriterebbe di salire sul podio dei più inquinanti. Questo dato non stupisce più di tanto, tenendo conto che il significato di “moda circolare” sfugge ai più, così come le attività che ruotano intorno a quel concetto e che le aziende più attive stanno già mettendo in campo: up-cycling, re-cycling, down-cycling, swap… Solo il second hand, seconda mano, è più noto e diffuso. Una pratica “circolare” che fortunatamente sta guadagnando terreno.
I consumatori fanno la loro parte, ma chiedono informazioni più chiare e trasparenti
Se il concetto di economia circolare non è sato ancora sdoganato, quello di sostenibilità è ormai conosciuto e condiviso da un numero via via maggiore di consumatori. Oggi, per esempio, è vero che ogni anno si acquistano diversi capi di abbigliamento e accessori, ma se sono in buono stato vengono indossati anche per diversi anni.Anche lo shopping lentamente si sta trasformando in “ecoshopping”.
Quando acquista un capo di vestiario, la metà degli italiani non bada più solo alla foggia, alla taglia o al prezzo, ma anche al materiale, per trovare tessuti naturali o biologici. Non solo. Vuole sapere se quell’abito è stato prodotto in modo sostenibile e se quell’azienda o quel brand siano veramente impegnati sul fronte sociale e ambientale.
L’esigenza di un’informazione più chiara e trasparente sulla reale sostenibilità dei capi e dei processi produttivi che ci stanno dietro è sentita addirittura dal 74% del campione. Un dato che aziende e brand farebbero bene a non ignorare. Anche perché la richiesta di una comunicazione più limpida è accompagnata da uno scetticismo serpeggiante sulla reale sostenibilità del mondo della moda.
Il 70%, per esempio, crede che spesso chi delocalizza la produzione nei Paesi in via di sviluppo non rispetti i diritti dei lavoratori e il 59% resta convinto che, alla fin della fiera, nel mondo della moda conti solo l’immagine. Altro che sostenibilità!
D’altra parte, si chiede più della metà deli italiani, come si fa a credere che capi dai prezzi stracciati siano stati realizzati in modo etico e sostenibile? E viceversa, l’etichetta di “etico e sostenibile” non è solo una bella scusa per alzare il prezzo? In verità, non è quasi mai una “questione di prezzo”, ma di credibilità e, ancora una volta, di trasparenza. Con la certezza che il vestito in questione è stato prodotto rispettando tutti i crismi della sostenibilità etica e ambientale, quasi il 50% dei partecipanti si è dichiarato ben felice di spendere qualche euro in più.