Chissà quanti capi di lana o di cashmere rigenerati abbiamo indossato senza saperlo né lontanamente sospettarlo. Sì, perché per decenni la presenza di parti riciclate nei filati è stata un’onta da nascondere invece che un merito da esibire. Nessuna legge, ieri come oggi, obbliga il produttore a specificare sul cartellino se le fibre che ha usato per realizzare quell’indumento sono riciclate o rigenerate. Un tempo, chi recuperava nel ciclo produttivo gli abiti usati era infatti chiamato spregiativamente «cenciaiolo» (da cencio, cioè straccio). Risparmiare sulla materia prima, riciclando vestiti dismessi o ritagli di confezioni, non era infatti considerato un dono all’ambiente, ma il disdicevole segno che non ci si poteva permettere i più costosi filati vergini. Del resto, tra i clienti, in molti avrebbero come minimo storto il naso sapendo che il tessuto del loro nuovo abito proveniva da una fibra ricavata da stracci. Solo la sensibilità ecologica moderna ha elevato i rifiuti (compresi quelli tessili) a «materie prime seconde».
Ne sanno qualcosa dalle parti di Prato, dove è nato «un distretto industriale che ha costruito un’enorme ricchezza sull’economia circolare quando ancora nessuno sapeva che cosa fosse»: ce lo racconta magistralmente il “Stracci”, il documentario diretto da Tommaso Santi, scritto da Silvia Gambi e prodotto da Kove (www.straccidoc.it), che ripercorre le fasi di una storia lunga ormai più di un secolo. È qui che sono nati i maestri di un mestiere quasi magico, che consiste nel «comprare a chilo e vendere a metro», cioè nell’acquistare a peso sacchi di vestiti usati da cui ricavare fibra per nuovi tessuti, che poi saranno venduti a metraggio. Sono le fibre animali, soprattutto la lana e il cashmere rigenerati, che hanno reso famoso il distretto di Prato, trasformandolo in un punto di riferimento internazionale per il settore.
Secondo Textile Exchange, nel mondo meno dell’1% di tutte le fibre tessili viene riciclato in nuovi capi di abbigliamento. Se per la lana si arriva al 6% è grazie all’esperienza pratese e alle centinaia di aziende che ne fanno parte. Anche se, va detto, la lana rappresenta soltanto l’1% di tutte le fibre in circolazione.
Intervista DANIELE SPINELLI Chimico e project manager presso il Next Technology Tecnotessile di Prato
Qual è la differenza tra fibre riciclate e fibre rigenerate?
«Il riciclo comporta la distruzione dell’oggetto di partenza e un cambio di stato della materia: per esempio dalle bottiglie in Pet ricavo un tessuto in poliestere. Nella rigenerazione - è il caso di lana e cashmere - ciò non avviene, perché la fibra recuperata dal vecchio capo diventa filato per produrne uno nuovo».
Nella rigenerazione si usano sostanze chimiche?
«No, si tratta di un processo solo meccanico, senza l’uso di prodotti chimici. Neppure di tinture, dato che i vecchi capi vengono già divisi per colore. Così si minimizza ulteriormente l’impatto ambientale».
Ci dà un’idea di quanto?
«In termini di risparmio di materie prime, con il cashmere rigenerato si riescono a tagliare circa il 90% di acqua, l’80% di energia, il 90% di CO₂».
C’è il rischio che nel processo finiscano abiti contenenti sostanze chimiche vietate?
«Può trattarsi di vestiti usati che non sono soggetti al regolamento europeo Reach, o perché extra Ue o perché risalenti a prima dell’entrata in vigore della normativa. Quindi il rischio c’è ed è una questione spinosa. Infatti, se per i prodotti riciclati valessero le stesse limitazioni previste per quelli nuovi, sarebbe un bel problema per tutta l’economia circolare».
Lana e cashmere possono essere rigenerati all’infinito?
«Solo in teoria, visto che ogni volta che si sottopone la fibra a processi meccanici di sfilacciatura ne esce accorciata. Per evitare che il filato subisca un calo di performance, la fibra, quando necessario, viene allungata aggiungendo una percentuale di lana o di cashmere vergini ».
Chi acquista un capo in fibra rigenerata deve aspettarsi una qualità inferiore e una minore durata rispetto a un capo in fibra vergine?
«In genere non si riscontrano differenze, in particolare per la lana, che è più resistente ed elastica del cashmere, e quindi meno soggetta a un calo di performance dopo essere stata rigenerata».
E per il cashmere?
«Il cashmere, più delicato, ha minori proprietà meccaniche della lana, quindi i processi di rigenerazione potrebbero incidere sulla sua qualità e rendere necessaria l’aggiunta di cashmere vergine. Un’altra possibilità è la destinazione di quella fibra a usi diversi dall’abbigliamento».