Il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, non è soltanto un appuntamento nel calendario globale: è un momento in cui fermarsi, riconoscere ciò che ancora non funziona e scegliere collettivamente da che parte stare. Parlarne significa assumersi la responsabilità di contribuire a un cambiamento culturale, politico e sociale che non può più attendere. Per questo, oggi scegliamo di soffermarci su un aspetto troppo spesso invisibile, ma in realtà decisivo nel percorso di chi vuole riprendere il controllo sulla propria vita: la violenza economica.
Comprendere la violenza economica significa guardare alla radice del problema. Significa riconoscere che senza autonomia finanziaria, libertà e sicurezza restano concetti astratti. E significa anche interrogarsi su come, come comunità, possiamo creare condizioni migliori affinché ogni donna non sia mai costretta a restare in una situazione di pericolo perché priva delle risorse minime per costruirsi un futuro.
Un tipo di violenza che passa sotto silenzio
L’European Institute for Gender Equality definisce la violenza economica come un insieme di azioni che limitano o controllano l’accesso di una persona alle risorse finanziarie, condizionandone la vita quotidiana. Accade quando a una donna viene impedito di lavorare, quando il suo stipendio viene controllato o sottratto, quando le viene negato l’accesso al conto bancario o quando le decisioni economiche della famiglia vengono prese senza coinvolgerla. Accade anche quando si sabota il suo percorso professionale o formativo, quando si danneggiano beni che hanno un valore economico o quando si chiede – o impone – di contrarre debiti contro la sua volontà.
Nella grande maggioranza dei casi, in Italia, a subire questo tipo di abuso è una donna, e l’autore è un uomo. Ed è proprio questa asimmetria nella gestione del denaro che crea una dipendenza profonda, un legame tossico che rende molto più difficile – e a volte impossibile – fuggire dalla violenza fisica o psicologica. Non riuscire a pagare un affitto, non avere accesso a un conto corrente, non potersi permettere nemmeno un biglietto del treno rappresenta per molte donne un ostacolo insormontabile.
Secondo un report di WeWorld realizzato con Ipsos, una donna su due afferma di aver subito almeno una forma di violenza economica nel corso della vita. Tra le donne separate o divorziate la percentuale sale a due su tre. Numeri che raccontano quanto questo fenomeno sia diffuso, stratificato e ancora poco riconosciuto.
Lavoro e autonomia: un divario che pesa
Se la libertà passa dall’indipendenza economica, questa a sua volta passa dal lavoro. E anche qui i dati Istat 2025 evidenziano uno squilibrio che non possiamo ignorare. Il tasso di occupazione maschile è del 70,4%, mentre quello femminile si ferma al 52,5%. La maternità, poi, continua a rappresentare un ostacolo significativo. Le donne che vivono sole lavorano nel 69,3% dei casi; le madri single nel 62,9%; quelle che vivono in coppia solo nel 57,2%. In questo stesso scenario, i padri in coppia raggiungono un tasso di occupazione dell’86,3%. Il divario parla da sé.
Il territorio amplifica queste disparità. Nel Mezzogiorno, meno della metà delle madri tra i 25 e i 34 anni ha un lavoro, mentre nel Nord e nel Centro la situazione migliora sensibilmente. Dove mancano servizi, opportunità e reti di sostegno, la rinuncia all’occupazione diventa quasi inevitabile.
Accanto a chi lavora, c’è un’altra realtà rilevante: quella delle donne inattive, quasi 8 milioni. Molte non cercano un impiego e non sono disponibili a lavorare. Le motivazioni familiari, che riguardano un terzo di loro, mostrano con chiarezza quanto la cura, in Italia, continui a essere considerata una responsabilità quasi esclusivamente femminile.
Servizi insufficienti: un ostacolo strutturale
Alla base di tutto c’è un sistema di servizi che non riesce a sostenere davvero chi vuole lavorare. La frequenza ai nidi nella fascia 0-2 anni è ancora troppo bassa e la disponibilità non è uniforme. Nel Mezzogiorno i bambini che frequentano il nido sono il 17%, nel Nord il 33%, nel Centro il 37%. E la domanda cresce più dell’offerta: le liste d’attesa si allungano, soprattutto nel settore pubblico, e molte famiglie restano senza soluzioni.
Un Paese che non investe nei servizi per la prima infanzia è un Paese che non mette le donne – e le madri in particolare – nelle condizioni di essere economicamente autonome.
Retribuzioni e carriera: il prezzo della disuguaglianza
La questione economica non si esaurisce con l’accesso al lavoro. Anche quando le donne lavorano, spesso guadagnano meno e avanzano più lentamente nella carriera. Il gender pay gap nel settore privato è del 7,2% sulla Ral (la retribuzione annua lorda) e dell’8,6% sulla Rga (la retribuzione globale annua), ma la distanza aumenta fino a oltre 27 punti se si considerano le componenti variabili della retribuzione. In numeri concreti, una donna guadagna in media 2.300 euro in meno di un uomo all’anno.
Il soffitto di cristallo non è una metafora vuota: solo il 19% delle dirigenti è donna, le top manager sono pochissime e tra le amministratrici delegate si arriva appena al 2,3%. Anche nei consigli di amministrazione, dove la presenza femminile ha raggiunto il 43,2%, i ruoli esecutivi restano in larga parte maschili.
Questo divario si traduce in minori risparmi, minori investimenti e pensioni più basse. I dati Inps lo confermano: gli uomini percepiscono in media 1.486 euro al mese di pensione, le donne 1.011. Un gap del 32%.
Conti correnti e autonomia: un diritto recente, non ancora esercitato
Sono passati solo cinquant’anni da quando, con la riforma del diritto di famiglia del 1975, le donne hanno potuto aprire un conto corrente senza il consenso di un uomo. Eppure, oggi il 4,8% delle donne non ha un conto, e un altro 20% lo ha soltanto cointestato. Significa che una donna su quattro non dispone di un conto su cui decidere liberamente. Anche questo è un segnale della fragilità economica che colpisce molte, troppo molte italiane.
Il rapporto Edufin Index di Alleanza, curato da Sda Bocconi, mostra che il divario di genere nell’educazione finanziaria è di 5 punti percentuali. In un Paese in cui solo il 40% degli adulti ha competenze finanziarie adeguate, le donne partono ulteriormente svantaggiate: è proprio qui che si costruisce la capacità di gestire il proprio denaro, di pianificare, di progettare e di uscire da una condizione di dipendenza economica.
L’uguaglianza di genere, prevista dall’Obiettivo 5 dell’Agenda 2030, passa anche da qui: dalla consapevolezza, dalla conoscenza e da un sistema che accompagni le donne verso scelte autonome e informate.
Il nostro impegno collettivo
Il nostro impegno collettivo non può prescindere da un cambiamento culturale che comincia molto prima dell’età adulta. Gli stereotipi iniziano presto, spesso già nella prima infanzia: nonostante abbiano in media livelli di istruzione più alti, molte bambine finiscono per orientarsi verso percorsi scolastici e professionali percepiti come “naturali” per loro, ma che offrono prospettive occupazionali e retributive più basse. Studi recenti mostrano anche che le bambine tendono ad avere un’autostima inferiore rispetto ai coetanei maschi, un elemento che può influenzare profondamente le loro aspirazioni future. È qui che si radica una parte significativa del gender gap che ritroviamo più avanti, nel mondo del lavoro, nei redditi, nelle carriere e nelle scelte economiche.
Siamo convinti che un mondo davvero sostenibile debba eliminare ogni barriera che impedisca alle donne di partecipare pienamente e in modo paritario alla vita economica e produttiva. Per farlo servono scelte politiche chiare, coraggiose e continuative. Occorre introdurre percorsi di educazione economico-finanziaria obbligatori in tutte le scuole, fin dalla primaria, per dare alle nuove generazioni gli strumenti per comprendere il valore del denaro e della pianificazione. È altrettanto necessario promuovere campagne di sensibilizzazione diffuse, multicanale, capaci di raggiungere tutta la popolazione per far conoscere le dinamiche della violenza economica, le sue conseguenze e le modalità per prevenirla e contrastarla.
Servono poi misure concrete di sostegno e protezione. L’aumento dei finanziamenti al reddito di libertà, accompagnato da politiche abitative e del lavoro più solide e inclusive, può rappresentare un aiuto decisivo per chi sta cercando di ricostruire la propria autonomia. E serve, soprattutto, un impegno a ridurre il divario culturale che ancora oggi segna profondamente la nostra società, fin dall’infanzia, limitando aspettative, opportunità e scelte di vita delle bambine e poi delle donne.
Raccontare la violenza economica significa anche questo: rendere visibili le disuguaglianze, dare voce a chi non ne ha, e sostenere con forza un percorso che deve coinvolgere istituzioni, scuole, famiglie e comunità. Solo così possiamo costruire un Paese in cui nessuna donna debba scegliere tra sicurezza e libertà, e in cui l’autonomia economica diventi un diritto pieno, riconosciuto e garantito per tutte.