mercoledì 23 luglio 2025

Capi invenduti e resi: l’impatto nascosto della moda

Ogni anno milioni di vestiti nuovi vengono bruciati o buttati. Un viaggio assurdo fatto di sprechi, emissioni e silenzi. Ma cambiare si può, a partire dalle nostre scelte.

Altrovestire
di Lorenza Resuli
filiera invisibile

Un clic, pochi euro, e a casa arriva un vestito o un paio di scarpe simili a quelli firmati. La taglia o la fantasia non convincono? Nessun problema: “tanto posso restituirlo gratis”. E si passa subito a un altro acquisto. E poi a un altro ancora. Chi non ha ceduto almeno una volta alla tentazione dell’affare facile? 

Lo shopping compulsivo – alimentato da prezzi stracciati, dark pattern sempre più raffinati e resi facili – è il motore più potente della fast fashion. Ma dietro a ogni vestito acquistato in pochi secondi su uno dei tanti siti low cost e poi restituito perché non piace o non sta bene, si nasconde una realtà drammatica che in pochi conoscono o si preferisce ignorare: montagne di abiti nuovi che finiscono in discarica o che vengono distrutti, alimentando una crisi ambientale silenziosa, ma devastante.

Grazie al regolamento Ecodesign (UE 2024/1781 o ESPR, Regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili), dal luglio 2026 sarà vietato distruggere abiti, scarpe e accessori resi e invenduti. Le aziende saranno finalmente costrette a riutilizzarli, riciclarli o, solo in ultima istanza, smaltirli in modo sostenibile. 

Ma intanto che fine fa la mole sempre più grande  di capi “orfani”, che la produzione iperaccelerata della fast fashion spesso non riesce né a collocare né tantomeno a smaltire?

Che fine fanno i vestiti restituiti o invenduti 

Secondo il report “The state of fashion 2022” di McKinsey, a livello globale la fast fashion produce ogni anno qualcosa come 40 milioni di tonnellate di rifiuti tessili. Sempre McKinsey stima che nel 2024 tra il 20-30% dei capi acquistati online e il 20% di quelli comprati in negozio siano stati restituiti. Ma qual è il loro destino una volta tornati al mittente? 

Alcuni possono tornare sul mercato, passando di mano in mano in ogni angolo del pianeta. Un’indagine condotta dall’unità investigativa di Greenpeace insieme alla trasmissione “Report” di Rai 3 ha monitorato la sorte di 24 capi acquistati da 8 e-commerce di fast fashion e poi restituiti ai venditori dopo aver nascosto al loro interno un localizzatore. I pacchi hanno attraversato ben 13 Paesi europei e la Cina, sono stati venduti e rivenduti in tutto 40 volte e, dopo quasi due mesi, 14 indumenti su 24 non erano ancora stati rivenduti

Altri capi restituiti o invenduti finiscono agli stockisti, negli outlet o nei mercati secondari dei Paesi in via di sviluppo, dove però spesso restano inutilizzati e vengono gettati nelle gigantesche discariche a cielo aperto. Altri ancora (ben pochi) vengono donati a enti benefici o riciclati per ricavarne materia prima, perdendo però la loro originaria destinazione d’uso. Ma molti altri vengono semplicemente distrutti. Purtroppo, questa è la via più economica (e quindi più battuta) dalle aziende.

Lo conferma anche lo studio “Environmental justice index - Una mappa globale della Giustizia Ambientale” realizzato da Mani Tese ETS in collaborazione con Università degli Studi di Milano e Politecnico di Milano. Sanare e riconfezionare i prodotti restituiti per rimetterli in vendita costa troppo: è molto più conveniente scartarli e distruggerli. La stessa sorte tocca spesso anche ai capi invenduti. Lo studio evidenzia un dato ancora più inquietante: alcuni brand, pur di non svalutare il proprio marchio con il mercato del second hand, preferiscono distruggere i capi. Basta rimuovere etichette e loghi e spedirli lontano, segretamente, dall’altra parte del mondo.

Ma anche in Europa, il fenomeno della distruzione di prodotti tessili restituiti o invenduti è molto più esteso di quanto non si creda. 

Il problema dei vestiti invenduti in Europa

Vestiti nuovi, mai indossati, finiti direttamente nell’inceneritore. Succede anche in Europa, dove ogni anno tra il 4% e il 9% di tutti i prodotti tessili immessi sul mercato e mai usati finisce in discarica o negli inceneritori, ovvero fino a 600mila tonnellate di vestiti nuovi distrutti.

A denunciarlo è l’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA), che nel suo recente rapporto  “The Destruction of Returned and Unsold Textiles in Europe’s Circular Economy” fa luce su una pratica diffusa ma ancora poco trasparente, alimentata dall’inarrestabile ascesa dell’e-commerce, dai resi facili, ma soprattutto dal mercato distorto della fast fashion.

A contribuire a questo spreco sono soprattutto gli acquisti online, con un tasso di reso medio del 20%. In pratica, un capo su cinque torna al mittente. Per le calzature arriviamo addirittura fino al 30% di resi: le scarpe e gli stivali invernali sono la categoria più restituita. Una volta rispediti al mittente, che fine fanno questi prodotti? L'EEA stima che tra il 22 e il 43%, ovvero in media un terzo, di tutti i capi di abbigliamento acquistati online e restituiti venga distrutto invece di essere rivenduto o riciclato. 

Le informazioni disponibili sui prodotti tessili invenduti sono più scarse, ma altrettanto allarmanti: circa il 21% della produzione tessile resta senza acquirenti e almeno un quinto di queste giacenze viene eliminato, spesso senza alcun tentativo di recupero.

La distruzione di capi nuovi – adottata tanto dai colossi del fast fashion quanto da marchi di lusso – è l’emblema di un sistema produttivo “take-make-waste” (prendi, produci, spreca), che genera pesanti impatti ambientali del tutto evitabili e che è ben lontano da quel modello di economia circolare che già dovrebbe essere la norma. 

Shopping online e resi: l’impatto nascosto

Non stupisce che il tasso di resi per i prodotti venduti online sia fino a tre volte superiore rispetto ai prodotti venduti nei negozi fisici. Né sorprende che quelli degli articoli di moda e lifestyle siano molto più alti rispetto ad altre tipologie di merce. L’impossibilità di vedere e provare i capi prima dell’acquisto, unita alla forte variabilità delle taglie tra i brand, rende abbigliamento e calzature tra i prodotti più restituiti in assoluto. Secondo i dati, circa il 70% dei resi è dovuto proprio a problemi di vestibilità o al fatto che il capo acquistato non rispecchia le aspettative in termini di stile.

D’altra parte, nei Paesi UE, chi acquista online ha il diritto di annullare l’ordine e restituire il prodotto entro 14 giorni senza dover fornire alcuna motivazione, mentre per gli acquisti in negozio l’obbligo legale di accettare resi o rimborsi scatta solo se l’articolo è difettoso (anche se molti rivenditori offrono questa possibilità su base volontaria). Un diritto sacrosanto, ma che molte piattaforme online sfruttano ad arte per incentivare gli acquisiti: comprate senza pensarci due volte, tanto al limite potete sempre restituire la merce! 

Ma cosa succede quando in pochi secondi restituiamo un vestito o un paio di scarpe acquistati online? Parte un processo macchinoso che può richiedere settimane per essere portato a termine. Questo iter complesso ha un impatto significativo (leggi negativo) sia sulla possibilità di rivendere il prodotto (in particolare se stagionale e di fast fashion), sia sul prezzo di vendita originale, che spesso subisce riduzioni significative. Il percorso a ritroso di un reso, infatti, non è a buon mercato: bisogna mettere in conto i costi per la logistica, lo smistamento e la gestione dei resi, le sostituzioni o i rimborsi, l’assistenza ai clienti e il deprezzamento delle attività per i ribassi, la liquidazione o la distruzione.

E veniamo alle possibili destinazioni dei resi. Nella migliore delle ipotesi, il vestito restituito torna sul mercato a prezzo pieno, ma per varie ragioni (obsolescenza stilistica, fuori stagione, piccoli difetti ecc.) di solito finisce per essere venduto a prezzi ridotti. E se ciò non è possibile o troppo svantaggioso, sarà svenduto a intermediari (“jobbers”) per l’esportazione nel mercato dell’usato (spesso verso Paesi del Terzo mondo, dove altrettanto spesso finirà nelle tristemente note discariche a cielo aperto), donato in beneficenza o… distrutto.  

Che cosa fare allora? Il diritto al recesso dagli acquisti online è un diritto fondamentale che dà ai consumatori la possibilità di recedere dall’acquisto senza alcuna motivazione entro 14 giorni. Ed è importantissimo per gli acquisti online, visto che è difficile rendersi pienamente conto a distanza di ciò che si sta acquistando.

È vero anche, però, che tutti noi possiamo fare nel nostro piccolo qualcosa. Prima di tutto acquistiamo vestiti e accessori solo se veramente necessari. Poi valutiamo bene quello che si sta per comprare, leggendo le etichette e le caratteristiche del prodotto. Questi comportamenti virtuosi ridurrebbero di per sé la quantità di resi. 

Dal canto loro tutte le grandi piattaforme di shopping online dovrebbero incentivare l’acquisto di seconda mano: il reso anziché essere buttato può essere rivenduto su sezioni apposite dedicate al second hand. E poi, è bene ricordarlo, il tessile non va buttato nell’indifferenziato: va riciclato per sfruttarne al massimo il valore. 

Per questo guardiamo con favore all’arrivo del decreto attuativo della responsabilità estesa del produttore del settore tessile (abbiamo approfondito il tema su altroconsumo.it/vita-privata-famiglia/vivere-sostenibile/opinioni/responsabilita-estesa-produttore-tessile). Questa nuova regolamentazione, che speriamo veda la luce entro la fine dell’anno, introduce il concetto del riuso e del riciclo nel settore del tessile, imponendo circolarità ai produttori e ai rivenditori, inclusi quelli online. 

Sovrapproduzione e invenduti: le colpe della fast fashion

Nonostante la carenza di informazioni disponibili sul volume di prodotti tessili invenduti, che le aziende sono restie a comunicare, un fatto è certo: tra gli effetti collaterali della fast fashion c’è la sovraproduzione legata al turnover ultraveloce delle collezioni. L’enorme varietà di prodotti - con stili, colori, taglie e collezioni che cambiano con le stagioni - da un lato offre ai consumatori un’ampia libertà di scelta, dall’altro rende sempre più difficile per i brand prevedere con precisione cosa venderà davvero. 

Basta poco per generare scorte in eccesso (overstock): un colore meno popolare del previsto, una tendenza che svanisce in fretta rendendo quel vestito o paio di scarpe obsoleto, o semplicemente un inverno troppo mite che riduce le vendite dei cappotti. Anche le differenze geografiche nei gusti e nei bisogni ostacolano ulteriormente le previsioni. 

Nei negozi fisici, soprattutto quelli di piccole dimensioni, la situazione è ancora più difficile: lo spazio è limitato e per far posto alle nuove collezioni, che si susseguono a ritmo continuo,  si è spesso costretti a liberarsi in fretta dei capi invenduti. Il risultato? Una filiera inefficiente, dove la corsa alla varietà e al “nuovo” alimenta sprechi strutturali e danni ambientali, soprattutto quando entrano in gioco i brand della fast fashion, che spesso preferiscono l’overstock per ridurre i tempi di consegna ed evitare il rischio di non riuscire a soddisfare la domanda perdendo il relativo profitto. È la logica intrinseca nella moda usa e getta: meglio sprecare prodotti piuttosto che non rispondere tempestivamente alla domanda del mercato, pompata dal flusso incessante dei prodotti.

Infine, c’è da tener presente che gran parte dei vestiti che indossiamo viene prodotta nel Sud del mondo, soprattutto in Asia, dove il costo del lavoro è molto basso. In questo contesto, per le aziende è spesso più conveniente produrre in eccesso piuttosto che rischiare di non avere abbastanza merce da vendere.

A incentivare la sovrapproduzione ci sono anche i vantaggi delle economie di scala: più si produce, meno costa ogni singolo capo. E lo stesso vale per la varietà: realizzare tante varianti simili (per esempio più taglie o colori di un determinato modello) è più economico che produrre pochi articoli diversi. Il risultato? Un mercato saturo di abiti in tutte le forme, colori e stili, molti dei quali non troveranno mai chi li indossa. Una strategia industriale, cioè, che privilegia la quantità sulla qualità e che, ancora una volta, alimenta il ciclo tossico della fast fashion.

L’impatto ambientale della moda che non usa e getta

“La portata reale e l’impatto ambientale della distruzione dei prodotti tessili restano in gran parte sconosciuti”, avverte l’Agenzia Europea dell’Ambiente. Eppure, anche senza dati certi sull’intero ciclo produttivo, è chiaro che la distruzione dei resi e dei capi invenduti ha un impatto economico e ambientale diretto ma anche indiretto, legato alla produzione iniziale di quei vestiti che, di fatto, non verranno mai indossati.

Ogni fase della gestione dei resi – riconfezionamento, trasporto, smistamento, stoccaggio – comporta un consumo significativo di energia e risorse, senza contare il costo ambientale degli spazi utilizzati, spesso riscaldati e illuminati. I percorsi di ritorno delle merci, poi, possono superare i 1.000 km, complice la rete logistica frammentata tra centri di smistamento e magazzini situati in diversi Paesi, come mette in luce l’indagine di Greenpeace e “Report”. 

Anche se solo il 3% circa delle emissioni totali legate a un capo di abbigliamento deriva dalla distribuzione e dalla vendita al dettaglio, i trasporti e le attività aggiuntive necessarie a gestire i resi possono far superare questa soglia, annullando i benefici ambientali di una potenziale rivendita e avvicinandosi all’impatto della produzione ex novo.

E i capi invenduti? Hanno anch’essi un impatto ambientale significativo. Alla fine del ciclo di vendita, molti prodotti in eccesso vengono ritirati dai negozi, trasportati nei magazzini e successivamente riesportati, svenduti o scartati, generando ulteriore consumo energetico e dispendio di risorse.

Quando questi vestiti poi finiscono nell’inceneritore, vengono rilasciati CO₂ e altri inquinanti atmosferici, in una quantità che dipende dal livello tecnologico dell’impianto. Ma il danno ambientale, è bene ribadirlo, inizia già a monte, nel momento stesso in cui si producono capi destinati a non essere mai utilizzati.

Una parte consistente dei prodotti invenduti, infine, non viene distrutta in Europa, ma esportata in massa soprattutto in Africa, Asia o Sud America, ufficialmente per essere riutilizzata o riciclata. In realtà, spesso si tratta di merce del tutto priva di valore commerciale, articoli che sono già rifiuti al momento della spedizione. Il risultato? Discariche a cielo aperto, roghi tossici che appestano l’aria e un impatto ambientale devastante semplicemente esportato altrove.

Nonostante la carenza di dati completi, l’EEA ha provato a quantificare l’impronta climatica di questo meccanismo che trasforma vestiti nuovi in rifiuti. La stima include le emissioni legate alla produzione delle fibre tessili e alla distruzione finale, ma esclude fasi intermedie come filatura, tintura e confezionamento. Le cifre parlano chiaro: nella stima più ottimistica, la distruzione dei tessuti comporta 132 tonnellate di CO₂ equivalente per ogni chilo di fibra prodotta e distrutta. Ma le proiezioni più realistiche indicano 5,6 milioni di tonnellate di CO₂ all’anno: un impatto paragonabile a quello prodotto da oltre un milione di auto a benzina in un anno, o appena inferiore alle emissioni totali della Svezia nel 2021.

Con l’arrivo nel nostro Paese delle nuove regole di derivazione europea, che saranno attuate con il decreto attuativo del ministero dell’Ambiente, siamo convinti che le cose cambieranno. Ma insieme alle regole servono anche programmi informativi ed educativi e su questo Altroconsumo è in prima fila. Questa sezione di Impegnati a cambiare serve a fare informazione ed educazione proprio rispetto alle scelte di acquisto nel settore tessile. 

 

 

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