La pandemia di Covid-19 non ha solo messo a dura prova i sistemi sanitari e le economie mondiali. Ha lasciato un segno profondo anche sul benessere psicologico delle persone, amplificando fragilità già esistenti e facendone emergere di nuove. L’Organizzazione Mondiale della Sanità stima che nei primi due anni di emergenza i casi di ansia e depressione siano aumentati del 25% su scala globale.
Lockdown, isolamento, incertezza finanziaria, paura del virus e lutti hanno inciso soprattutto su due categorie di persone: giovani e anziani. I primi hanno pagato la sospensione della scuola in presenza, il cambiamento delle abitudini e l’invasione dei social nella vita quotidiana; i secondi hanno sofferto una solitudine che, oltre a minare la salute mentale, rappresenta uno dei principali fattori di rischio per il declino cognitivo.
Il risultato è una vera e propria esplosione di disagio mentale, che non si è certo disinnescata con la fine dell’emergenza sanitaria. Lo conferma l’indagine condotta da Altroconsumo nel luglio 2025 su un campione di oltre 1.000 persone tra i 18 e i 79 anni rappresentativo della popolazione, che ha fotografato la salute mentale degli italiani negli ultimi tre anni. Il risultato è preoccupante: il 38% degli intervistati ha dichiarato di aver vissuto almeno un problema di salute mentale o emotivo. Tra i disturbi più frequenti emergono l’ansia (30% del campione), problemi legati al sonno (20%) e depressione (17%).
Che il disagio mentale sia in crescita è dimostrato anche dal costante aumento della domanda di supporto psicologico. Secondo una ricerca condotta dall’ENPAP (Ente nazionale di previdenza e assistenza per gli psicologi) nel 2024, la percentuale di persone che hanno intrapreso un percorso di terapia è passata dal 29% nel 2020 al 39% nel 2024: 10 punti percentuali in più.
Questa crescente consapevolezza, che porta ad affrontare il problema e a scegliere di curarsi, è un importante segnale positivo. Sempre più persone dichiarano di dare priorità al proprio benessere psicologico e di essere disposte a rivolgersi a uno specialista. Ma il cambiamento culturale non basta, se non viene accompagnato da politiche concrete e inclusive.
Lo stigma si è ridotto, ma non per tutti
Durante e dopo la pandemia molti personaggi pubblici hanno condiviso le proprie fragilità, contribuendo a superare i pregiudizi sui disturbi mentali e sulla terapia psicologica. L’esposizione di figure conosciute, come Fedez, ha avuto un impatto rilevante sulla percezione collettiva, rendendo più accettabile l’idea di affidarsi a uno specialista della salute mentale e aumentando l’attenzione sull’importanza del benessere psicologico. Da questo punto di vista, la pandemia è stata un momento di importante cambiamento culturale.
Tuttavia, anche se si è attenuato, lo stigma intorno a questo tema è ancora diffuso. In tanti pensano che i problemi di salute mentale rappresentino una forma di debolezza personale che è meglio tenere per sé. Il problema, però, non è solo culturale o sociale. Molto spesso è di ordine economico: per molte persone il principale ostacolo ad avviare un percorso di terapia è il costo elevato delle sedute. Molti “vorrebbero” ma non “possono”.
In questo contesto, il cambiamento culturale rischia di restare confinato ai social network e a un pubblico giovane, urbano e istruito, mentre le fasce più fragili della popolazione – come anziani, migranti, persone a basso reddito o con scarsa scolarizzazione – continuano a restare escluse.
Servizi pubblici insufficienti
La pandemia ha acceso i riflettori sulla salute mentale e aumentato la sensibilità sociale verso il benessere psicologico. Tuttavia, le politiche pubbliche non sono riuscite a dare risposte all’altezza, delegando al settore privato gran parte dell’assistenza psicologica di base.
Prendiamo in considerazione la sola offerta di assistenza psichiatrica proveniente dal servizio pubblico: secondo il Rapporto 2023 sulla salute mentale del ministero della Salute, nel 2022 i Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) del Servizio sanitario nazionale seguivano oltre 850mila pazienti con una dotazione di personale di sole 29mila unità, composto da infermieri (40%), da medici psichiatri o con altra specializzazione (17%), da OSS (10%) e da psicologi (7%). Quello delle strutture convenzionate ammontava a 12.700 unità. Numeri del tutto insufficienti per rispondere alla sola domanda di supporto psichiatrico da parte dei cittadini. Lo stesso Collegio Nazionale dei DSM lo ripete da anni: il servizio pubblico di salute mentale non è in grado di coprire nemmeno le richieste più basilari.
A tre anni di distanza dal Rapporto del ministero, la situazione non sembra migliorata. Il personale è ulteriormente diminuito, così come il numero di strutture e ambulatori sul territorio, distribuiti peraltro in modo disomogeneo lungo la Penisola. Anche i posti disponibili nelle strutture semi-residenziali – come quelle dedicate alla riabilitazione neuropsichiatrica di bambini e adolescenti – sono in calo. Il risultato: almeno due milioni di cittadini esclusi dalle cure.
Una delle cause principali è il sottofinanziamento cronico del settore . Oggi, denuncia il Collegio dei DSM, alla salute mentale è destinato appena il 2,5-3% del Fondo sanitario nazionale: meno di quanto stabilito già vent’anni fa dagli accordi Stato-Regioni e ben lontano da quel 5% ritenuto necessario solamente per l’assistenza degli adulti. In concreto, servirebbero almeno 2 miliardi di euro in più all’anno per garantire organici adeguati, migliorare la qualità dell’assistenza psichiatrica in tutte le fasce di età e assicurare standard di servizio uniformi su tutto il territorio nazionale.
Il nuovo piano nazionale
Il tanto atteso Piano di azione nazionale salute mentale 2025-2030 (Pansm), presentato come una vera svolta e pubblicato da poco, non sembra essere in grado di migliorare le cose. Il documento, redatto dalla commissione tecnica ministeriale e circolato durante l’estate, ha sollevato un coro di critiche da parte di esperti, operatori, associazioni e delle stesse Regioni: poche novità, obiettivi vaghi, assenza di indicatori misurabili e una visione discutibile del disagio giovanile. Ma soprattutto, nessuno stanziamento aggiuntivo finalizzato a potenziare i servizi: tutto sembrerebbe dover avvenire nei limiti delle risorse disponibili: un vincolo pesante che rischia di condannare il piano a restare lettera morta. Neppure la versione più recente, che accoglie varie richieste delle regioni, sembra cambiare di molto le cose.
Il Piano afferma di voler superare un approccio puramente clinico alla salute mentale, ma il ruolo centrale assegnato ai Dipartimenti di Salute Mentale – chiamati a coordinare ospedali, territorio e servizi sociali – unito alla mancanza di fondi, rischia di mantenere lo status quo. Secondo molti psicologi, il Piano continua a riflettere una visione psichiatrico-centrica: oggi, infatti, solo il 7% delle prestazioni erogate dai DSM è di tipo psicologico, contro il 25% psichiatrico e il 30% infermieristico. Difficile illudersi che la situazione cambi davvero senza risorse aggiuntive.
La figura dello “psicologo di assistenza primaria” che il Piano introduce come figura di prossimità da inserire nelle Case della Comunità, infine, non sembra corrispondere all’idea originaria dello “psicologo di base” mutuata da quella del "medico di base": una figura facilmente accessibile che segue con continuità qualche centinaio di pazienti. Il Piano prevede che questo professionista intercetti precocemente le situazioni di disagio, ma non è chiaro come potrà farlo, visto che dovrà servire l’intera utenza di una Casa della Comunità, pari a 40-50mila persone. Non è chiaro nemmeno come si coordinerà con il medico di base, indicato dallo stesso Piano come principale punto di riferimento sul territorio per i primi segnali di psicopatologia. In assenza di finanziamenti ad hoc, l’idea di un supporto vicino al paziente rischia di restare solo sulla carta, così come quella di creare mini-équipe composte da psichiatra, psicoterapeuta ed educatore nell'ambito delle Case della Comunità.
In questo vuoto progettuale hanno trovato spazio iniziative emergenziali, spesso accolte con favore dall’opinione pubblica, ma che si sono dimostrate ben poco efficaci nel lungo periodo. Il bonus psicologo, introdotto nel 2022, ne è l’esempio più lampante. Introdotto nel 2022, prevede un contributo fino a 1.500 euro a persona per sedute di psicoterapia, modulato in base all’ISEE. Ma sono gli stessi numeri a evidenziarne i limiti: per il 2024 lo stanziamento era di 12 milioni di euro, ridotti a 9,5 milioni nel 2025. Considerando che il bonus varia tra i 500 e i 1.500 euro, è evidente che, con risorse di questo livello, la misura può raggiungere solo poche migliaia di persone. Risultato? Nel 2024 sono state accolte circa 6.300 domande su oltre 400.000 presentate, cioè meno dell’2%.
Più che una soluzione, il bonus ha rappresentato un segnale simbolico, che di fatto ha appaltato al privato la gestione del disagio psicologico, senza alcun controllo né rendicontazione dei risultati raggiunti. Una misura, dunque, incapace di cambiare davvero le condizioni di accesso alle cure.
Psicologia scolastica e di base
Il tema della prevenzione resta centrale. Intervenire precocemente può evitare che un disagio diventi malattia. Lo psicologo scolastico, per esempio, è considerato uno strumento fondamentale per intercettare i problemi nei ragazzi. Eppure, in Italia è rimasto a lungo più un annuncio che una realtà. Solo con la legge di Bilancio 2025 è stato stanziato un fondo di 10 milioni di euro per avviare presidi territoriali a supporto della scuola. Ma i tempi di attuazione restano incerti e il rischio è che anche questa misura alla fine resti solo sulla carta.
Lo stesso vale per lo psicologo di base, una figura che avrebbe potuto affiancare i medici di famiglia per garantire accessibilità e continuità alle cure destinate al benessere mentale. Più volte annunciato, non è mai stato attivato su scala nazionale. Le proposte di legge presentate in Parlamento si sono arenate ancora una volta per la mancanza di coperture economiche: il costo stimato sarebbe intorno ai 90 milioni di euro.
Alcune Regioni – come Campania, Piemonte, Puglia e Lombardia (ma non solo) – hanno avviato sperimentazioni autonome per introdurre lo psicologo di base; tuttavia, in assenza di un piano centrale, la disparità tra territori è destinata solo ad aumentare. E il nuovo Piano di Azione Salute Mentale introduce lo “psicologo di assistenza primaria”, che però dovrà gestire un'intera Casa di Comunità, ovvero decine di migliaia di persone. Davvero difficile pensare che si possa allargare la platea di assistiti oltre a quelli con una patologia mentale. In pratica resta al palo l’idea di uno psicologo sul territorio, facilmente accessibile a tutti, che aiuti ad affrontare i disagi prima che si trasformino in un problema clinico.
Disuguaglianze di accesso
La carenza cronica di risorse si traduce in forti disparità economiche, geografiche e territoriali:
- economiche: una seduta privata difficilmente costa meno di 50 euro. Non ci sono dati ufficiali, ma secondo Serenis si arriva a spendere in media 70-80 euro a seduta. E l’indagine di Altroconsumo conferma: chi, tra gli intervistati, segue o ha seguito una terapia dallo psicologo o dallo psicoterapeuta ha sborsato in media 140 euro al mese. Costi, cioè, difficilmente sostenibili dalla maggior parte delle famiglie italiane. Senza rimborsi o tariffe calmierate, solo chi ha redditi medio-alti può assicurarsi una continuità nelle cure;
- geografiche: al Nord i servizi sono più diffusi, mentre nel Mezzogiorno la copertura di strutture e di personale è molto più limitata. La presenza, in particolare, di psicologi nel Servizio sanitario nazionale è più che risicata e si concentra al Nord: meno di 5.000 professionisti e meno di 130 strutture di psicologia, di cui 6 su 10 sono concentrati nel Settentrione;
- sociali: anziani, migranti e persone con bassa scolarizzazione accedono con difficoltà ancora maggiore ai servizi. Spesso non conoscono i canali a cui rivolgersi, oppure si trovano di fronte a barriere linguistiche e culturali. Anche la riduzione dello stigma, che ha favorito l’emersione del disagio nelle fasce più giovani e istruite, non si estende necessariamente a questi gruppi.
Il risultato è un sistema a due velocità: chi ha risorse economiche e culturali si cura, gli altri rischiano di restare esclusi.
La salute mentale è un priorità globale
Le indicazioni per affrontare quella che è un'emergenza globale non mancano. Alla conferenza di Parigi di quest’anno, promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dal ministero della Salute francese, 31 Paesi hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta che invita a considerare la salute mentale come priorità di tutte le politiche pubbliche. L’idea di fondo è che non basti un approccio puramente sanitario: servono azioni integrate che coinvolgano scuola, lavoro, cultura, sport e comunità.
Per l’Italia, questo significa prima di tutto aumentare stabilmente gli investimenti, destinando almeno il 5% del Fondo sanitario alla salute mentale. Con più risorse si potrebbero rafforzare i Dipartimenti di Salute Mentale, assumere nuovo personale, ampliare l’offerta di servizi e garantire una maggiore equità tra le Regioni.
Ma non si tratta solo di soldi. Servono almeno tre ordini di interventi:
- serve un vero psicologo di base nelle Case della Comunità, accanto ai medici di famiglia, per consentire a chiunque di accedere a un supporto psicologico senza dover sostenere costi proibitivi;
- serve una psicologia scolastica diffusa, non progetti temporanei, per intercettare i disagi degli studenti;
- serve introdurre programmi di supporto psicologico nei luoghi di lavoro per prevenire burnout e stress cronico.
Infine, occorrono campagne di sensibilizzazione mirate a ridurre lo stigma e a informare i cittadini. Non basta parlare ai giovani digitali: bisogna raggiungere anche anziani e migranti, con linguaggi e canali adatti a loro. Coinvolgere le persone con esperienza diretta di disagio mentale e i loro caregiver può aiutare a disegnare politiche più vicine alla realtà.
Un impegno che coinvolge tutti
La salute mentale non deve essere un lusso, ma un diritto. La pandemia ha mostrato quanto fragile possa essere l’equilibrio psicologico e quanto sia urgente affrontare il problema della salute mentale. Non possiamo limitarci a bonus temporanei o a piani irrealizzabili senza risorse. Serve un cambio di rotta, che metta al centro le persone e garantisca equità di accesso a tutti. Nessuno escluso.
Costruire una società più inclusiva e attenta al benessere psicologico è possibile e necessario. Ma richiede la volontà di trasformare parole e proclami in azioni concrete. È una sfida che riguarda prima di tutto le istituzioni, ma che deve coinvolgere anche le scuole, i luoghi di lavoro, i media e la società civile. Perché la salute mentale diventi davvero un bene comune e non resti un privilegio per pochi.