giovedì 20 febbraio 2025

Alzheimer: sintomi, impatto sociale e perché i nuovi farmaci non sono la soluzione

L’Alzheimer è una malattia in crescita, spesso sottovalutata. Oltre agli aspetti medici, pesa lo stigma sociale che porta all’isolamento di malati e caregiver. Mentre la ricerca avanza, i nuovi farmaci sollevano dubbi su efficacia e sostenibilità. I numeri del World Alzheimer Report 2024.

Altrocurare
di Simona Ovadia
mano di anziano e giovane

La malattia di Alzheimer ha in genere un inizio quasi impercettibile: chi si ammala inizia semplicemente a dimenticare alcune cose. Con il tempo però arriva al punto di non riconoscere più nemmeno i familiari e ad avere bisogno di aiuto anche per le attività quotidiane più semplici. Con l’aumentare dell’età media della popolazione, purtroppo è in aumento: ogni tre secondi qualcuno, da qualche parte nel mondo, sviluppa una qualche forma di demenza. In Italia si stima che circa il 5% della popolazione sopra i 60 anni soffra di Alzheimer

Oltre agli aspetti medici, già di per sé complicati anche perché ancora non è stata trovata una cura valida, si aggiungono quelli sociali: chi soffre di demenza viene spesso percepito come meno capace, meno importante e meno degno di attenzione. Una percezione errata che porta all’esclusione sociale e all’isolamento sia dei malati sia dei loro familiari. A dirlo, dati alla mano, è il World Alzheimer Report 2024, un’indagine condotta da Alzheimer’s Disease International, la federazione mondiale delle associazioni Alzheimer che sostengono le persone affette da demenza e le loro famiglie, su oltre 40 mila persone in 166 Paesi. 

Alzheimer e invecchiamento, i primi sintomi

Un primo aspetto critico emerso dal rapporto è la scarsa consapevolezza della malattia. L’80% delle persone comuni e persino il 65% dei sanitari intervistati, infatti, è ancora convinto che la demenza sia una conseguenza inevitabile dell’invecchiamento. Un pregiudizio che non solo ritarda la diagnosi e i trattamenti, ma che limita anche l’accesso ai servizi di supporto necessari al malato.

“È vero, chi si ammala all’inizio tende a non dare troppa importanza ai sintomi”, spiega a questo proposito Pietro Vigorelli, medico psicoterapeuta con una lunga esperienza nella cura dei malati di Alzheimer. “La persona si accorge che ha dei disturbi, che perde la memoria, ma pensa che questo sia normale quando ciò coincide con l’età che avanza. Più spesso sono i familiari che si preoccupano in modo manifesto e si rivolgono al medico di base. Ma anche il medico di famiglia non sempre inquadra subito il problema: qualche volta lo sottovaluta, altre interpreta i sintomi come un’iniziale depressione o come semplici disturbi dell’età. È soltanto quando la situazione peggiora che ci si rivolge a uno specialista”, chiarisce ancora Vigorelli. 

Ma i sintomi di decadimento delle funzioni del cervello, anche quelli più comuni come la perdita di memoria, non sono un evento normale da accettare con rassegnazione, bensì un’espressione di qualcosa che non va. Andrebbero quindi subito presi in considerazione e inquadrati attraverso una serie di esami come i test neuropsicologici per la diagnosi delle demenze.

Lo stigma sociale e l’isolamento dei malati e dei caregiver

Il World Alzheimer Report 2024 mette in luce anche un altro aspetto problematico: quello dello stigma. Il fardello della demenza non è solo legato agli effetti cognitivi della malattia, ma anche alla vergogna che accompagna coloro che ne sono affetti e i loro familiari. Il 43% dei caregiver intervistati, infatti, ha riferito di aver smesso di invitare amici e familiari. 

La paura del giudizio sembra essere una costante nella vita quotidiana di chi si prende cura di una persona con una qualche forma di demenza senile. Il rischio per i caregiver non è solo di natura sociale, ma anche emotiva. Spesso i familiari si isolano, non chiedono aiuto e soffrono di stress, ansia e depressione, peggiorando ulteriormente la qualità di vita sia del malato che di loro stessi. 

Il ruolo delle istituzioni

L’indagine sottolinea anche come in molti Paesi, specialmente quelli a basso reddito, non ci siano infrastrutture adeguate per la cura della demenza e come nelle nazioni con servizi sanitari avanzati, persistano ancora alcune barriere nelle strutture di accoglienza. Un esempio tipico è il rifiuto di accogliere i malati di Alzheimer nelle residenze assistenziali per anziani a causa delle loro esigenze di assistenza più complesse. Il Report si conclude quindi con alcune raccomandazioni per le istituzioni pubbliche ma anche per i singoli cittadini. 

Tra le più urgenti ci sono:

la necessità di rafforzare le campagne di sensibilizzazione per ridurre lo stigma su questa malattia; 
formare i professionisti; 
supportare le famiglie con reti di assistenza; 
promuovere l’inclusione e l’accesso equo alle cure per tutti i malati di demenza, indipendentemente dalla loro situazione economica o di provenienza geografica. 

E in Italia come stanno le cose? “La situazione – racconta Vigorelli – non è perfetta ed è ancora molto diversificata a livello territoriale. Le case di riposo fanno fatica perché spesso manca il personale. Tuttavia, come formatore che lavora con il personale di queste realtà, vedo che c’è anche molta buona volontà e impegno a fare bene. E poi ci sono le associazioni dei familiari, fondamentali per il grande supporto che forniscono ai parenti”.

Nuovi farmaci per l’Alzheimer: speranza o illusione?

In tutto ciò, la ricerca per la cura dell’Alzheimer va avanti da decenni, purtroppo ancora senza un esito soddisfacente. Negli ultimi anni, a fronte dell’insistenza delle famiglie dei malati frustrate dall’assenza di una speranza di cura e dell’industria farmaceutica, che ha investito molto in questa ricerca senza ritorni economici, sono stati approvati alcuni nuovi farmaci che sono stati pubblicizzati come “rivoluzionari” perché studiati per agire sul meccanismo alla base della malattia e non solo sui sintomi. Si tratta di una serie di anticorpi monoclonali che, già durante la loro sperimentazione, non hanno dato i risultati sperati in termini di efficacia

Nessuno di loro, infatti, è in grado di curare l’Alzheimer conclamato, né di fermare il declino cognitivo, ma solo di rallentarlo nelle persone che si trovano nelle fasi iniziali della malattia di un grado misurabile con i test ma impercettibile per il malato e per chi gli sta vicino tutti i giorni. La loro approvazione è stata molto criticata ed è ancora controversa. Meglio questo di nulla? È importante non nutrire false speranze e valutare anche i rischi.

Il caso Aducanumab e le polemiche sulla sua efficacia

Il primo di questi farmaci (Aducanumab), autorizzato negli Usa e poi ritirato, oltre a non dare benefici tangibili ai pazienti, poteva provocare edema cerebrale, mettendo a rischio la vita di chi lo assumeva. Il Lecanemab, della stessa azienda, è stato invece recentemente autorizzato negli Stati Uniti, nel Regno Unito (ma non è rimborsato dal servizio sanitario proprio per la scarsa efficacia), e nella Ue dove l’Ema, l’Agenzia europea per la sicurezza dei farmaci, dopo un primo parere negativo, ha dato un via libera poco convinto e solo per una ristretta platea di malati (devono avere alcune caratteristiche specifiche che ne mitigano i rischi). Ma è una scelta criticabile e non solo per gli inutili rischi che questo trattamento comporta a fronte di benefici impercettibili per i malati. Questi farmaci sono molto costosi e pongono una seria questione di sostenibilità per i servizi sanitari europei già fortemente in crisi.  

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