venerdì 05 settembre 2025

Quando l’IA consuma energia e acqua: perché riguarda tutti noi

L’intelligenza artificiale non è immateriale: ogni comando richiede energia, acqua e risorse. In Italia i data center crescono rapidamente, tra impatti ambientali e nuove opportunità per un futuro più sostenibile.

Altrodigitale
di Rudi Bressa
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Dietro l’apparente leggerezza di una richiesta a ChatGPT o all’assistente vocale del proprio smartphone, si nasconde un’infrastruttura energivora e complessa. Ogni comando inviato a un algoritmo, ogni immagine e ogni video (come i tantissimi pubblicati in questi mesi sui social) generati da un sistema di intelligenza artificiale, comporta un consumo di energia, acqua e risorse materiali. Ma se da un lato l’IA genera costi ambientali ancora poco noti al grande pubblico, dall’altro può anche offrire strumenti preziosi per affrontare la crisi climatica. La sfida, oggi, è capire come gestire e ridurre gli impatti, sfruttando al meglio le sue potenzialità. Anche perché le tecnologie digitali, per quanto immateriali possano sembrare, poggiano su un’infrastruttura concreta fatta di server, chip, cavi e data center, con un impatto fisico sul pianeta che non possiamo più ignorare.

Il consumo invisibile dell’intelligenza artificiale

Per funzionare, i modelli di intelligenza artificiale hanno bisogno di grandi quantità di dati, energia elettrica e infrastrutture complesse. La fase più visibile è quella dell’inferenza, cioè l’elaborazione delle risposte da parte dei sistemi come ChatGPT, che avviene ogni volta che un utente invia un prompt, ovvero le istruzioni fornite all’intelligenza artificiale. Si tratta di operazioni che attivano miliardi di parametri, e che, moltiplicate per milioni di utenti al giorno, generano un impatto ambientale significativo. C’è anche, però, un’altra fase ancora più nascosta. È quella dell’allenamento dei linguaggi di intelligenza artificiale che, prima di essere resi disponibili, vengono “istruiti”. In questa fase preliminare, l’azienda sviluppatrice fornisce una mole gigantesca di dati che il linguaggio assimila (sono tutte le informazioni da cui poi attinge quando poniamo una domanda al ChatGPT di turno). Perché questo avvenga, come è facilmente immaginabile, c’è bisogno di una quantità esorbitante di energia e acqua per il raffreddamento delle macchine, difficilmente quantificabile.

L’espansione dei data center in Italia e nel mondo

In tutto il mondo, la crescente domanda di calcolo spinge alla costruzione di nuovi data center, i grandi impianti dove risiedono fisicamente le tecnologie digitali che usiamo ogni giorno. Anche in Italia, questo fenomeno è ormai evidente. Secondo Terna (il gruppo gestore della rete elettrica italiana), a fine 2024 le richieste di connessione alla rete elettrica da parte di data center hanno raggiunto i 30 gigawatt: un valore venti volte più alto rispetto al 2021. Un boom che impone un adeguamento urgente delle infrastrutture, ma che solleva anche interrogativi ambientali. Dove verranno costruiti questi impianti? Con quale approvvigionamento energetico? Con quali consumi d’acqua? Sono domande ancora aperte, ma fondamentali. Perché ogni nuovo data center è anche un nodo critico della rete elettrica, e può influenzare le scelte energetiche nazionali per decenni.

Per rispondere a questa sfida, Terna prevede oltre 23 miliardi di euro di investimenti nel prossimo decennio, con l’obiettivo di favorire l’integrazione delle rinnovabili e rafforzare la resilienza della rete. Uno dei punti centrali è l’aumento della capacità di scambio tra le zone di mercato (si sta potenziando la rete elettrica per renderla più “connessa” internamente, in modo che possa reggere la crescita di consumo dovuta all’IA e, allo stesso tempo, facilitare l’integrazione delle energie rinnovabili), con un incremento del 22% rispetto al piano di due anni fa.

Perché servono più dati e trasparenza sull’impatto ambientale

Uno dei problemi principali, quando si parla di impatto ambientale dell’IA, è la scarsità di dati pubblici. Oggi non esiste uno standard condiviso per misurare quanta energia consumi un modello di intelligenza artificiale o quanta CO2 venga emessa per ogni contenuto generato. Secondo alcune stime, una singola sessione con un modello come GPT-3 può consumare fino a mezzo litro d’acqua per il raffreddamento dei server e l’energia necessaria per ogni risposta può essere dieci volte superiore a una ricerca su Google (Google che ha da poco diffuso un primo, molto parziale, report sul tema). Ma è difficile avere dati precisi: mancano standard condivisi e le aziende tech rilasciano informazioni parziali e non confrontabili tra loro. L’effetto cumulativo, però, è tutt’altro che trascurabile. E più l’IA si diffonde, più questo cresce. Sappiamo, per esempio, che molti data center utilizzano enormi quantità d’acqua per raffreddare le apparecchiature, ma nella maggior parte dei casi i dati non sono accessibili. Senza trasparenza, è difficile per governi e cittadini prendere decisioni consapevoli. E la mancanza di dati certi rischia di rallentare anche lo sviluppo di politiche pubbliche efficaci, capaci di orientare il settore verso modelli più sostenibili. Alcune iniziative stanno cercando di colmare questo vuoto informativo. La nuova direttiva europea sull’efficienza energetica, per esempio, prevede che i data center di una certa dimensione pubblichino regolarmente i propri consumi e le fonti di approvvigionamento. Un primo passo, ma ancora insufficiente.

Italia: rischi e opportunità della crescita dell’IA

Il nostro Paese si trova oggi a un bivio. Da un lato, l’espansione dell’IA e dei servizi digitali rappresenta una grande opportunità economica e tecnologica. Dall’altro, serve una strategia chiara per gestirne gli impatti. Il piano nazionale prevede oltre 40 miliardi di euro di investimenti per potenziare la rete e integrare le fonti rinnovabili. Un obiettivo che ha già prodotto segnali concreti: nel primo semestre del 2024, la produzione da rinnovabili – in particolare idroelettrico e fotovoltaico – ha superato per la prima volta quella da fonti fossili. Una dinamica favorita anche dalle condizioni meteorologiche e dall’accelerazione nell’installazione di impianti solari di piccole dimensioni. Tuttavia, resta aperta la questione di come bilanciare l’aumento della domanda legata all’IA con la disponibilità reale di energia pulita.

Cosa insegna il caso della Cina sull’uso dell’IA

Uno sguardo alla Cina aiuta a capire cosa può accadere quando l’intelligenza artificiale cresce in assenza di vincoli ambientali. Lì, la maggior parte dei data center funziona ancora con energia da carbone e le previsioni indicano un’impennata dei consumi elettrici e idrici nei prossimi anni. Secondo alcune stime, entro il 2035 i soli data center cinesi potrebbero arrivare a consumare 400 terawattora di elettricità e fino a 9 miliardi di metri cubi d’acqua all’anno. Una quantità impressionante: perché l’IA è tutt’altro che “immateriale”.

A inizio 2025 in Cina è nata DeepSeek, una intelligenza artificiale sviluppata a un costo molto più basso rispetto all’americana ChatGPT, sia in termini di addestramento del modello sia di consumi energetici. Chiaramente, la cautela è d’obbligo sugli annunci che arrivano da quella parte del mondo, a maggior ragione sulla tecnologia sviluppata e soprattutto sui costi (economici ed energetici).

L’intelligenza artificiale come parte della soluzione

L’intelligenza artificiale è una tecnologia ad alto impatto ambientale, ma può diventare anche parte della soluzione, se progettata e utilizzata con criteri di sostenibilità. Per farlo, servono scelte tecniche consapevoli, investimenti pubblici, standard trasparenti e una visione di lungo periodo. Alcune strade sono già percorribili, anche se ancora poco diffuse.

Applicata al settore energetico, l’IA potrebbe diventare una leva per ottimizzare i consumi, accelerare la decarbonizzazione e rendere più efficiente l’intera filiera produttiva. Un esempio concreto arriva dalla startup francese ClimateSeed, che ha sviluppato una piattaforma digitale basata su IA per semplificare il calcolo della carbon footprint aziendale, oggi obbligatorio per migliaia di imprese europee. Secondo la startup, l’intelligenza artificiale potrebbe colmare questo gap, automatizzando la raccolta e l’analisi dei dati, integrando informazioni disomogenee (come fatture, consumi energetici o spostamenti logistici) e restituendo una stima precisa delle emissioni.

Ma l’adozione dell’IA non è priva di costi ambientali. È quindi essenziale che le aziende ne accompagnino l’uso con scelte tecnologiche consapevoli: software efficienti, linguaggi di programmazione a basso impatto e data center progettati per l’efficienza energetica. In questo contesto, una delle innovazioni più promettenti è il raffreddamento diretto a liquido, che consente di dissipare il calore generato dai chip AI in modo più sostenibile.

Secondo studi recenti, un’IA progettata con criteri di efficienza può ridurre fino al 40% l’impatto ambientale rispetto ad approcci tradizionali, specialmente nei settori della manifattura e dell’agricoltura di precisione. Inoltre, un’analisi pubblicata su Scientific Reports (Nature, 2024) conferma che l’uso combinato di fonti rinnovabili e tecniche di ottimizzazione computazionale può rendere l’IA una leva importante per la decarbonizzazione.

L’uomo e l’IA: un confronto sorprendente

Lo studio rivela anche che i sistemi di IA generativa emettono tra 130 e 1.500 volte meno CO2 per pagina di testo generata rispetto a un autore umano, e tra 310 e 2.900 volte meno CO2 per immagine illustrata rispetto a un illustratore umano.

Questi dati non tengono conto degli impatti sociali, come la sostituzione professionale, né intendono suggerire che l’IA possa sostituire l’uomo in ogni attività. Mostrano però che – se impiegata per attività ben definite e ad alta intensità energetica o computazionale – può offrire un contributo significativo alla riduzione delle emissioni.

 

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